Oltre i limiti della docenza

Immaginiamo per un attimo che, all’interno della nostra società, ad una minima parte dei suoi membri fosse data l’opportunità di trascorrere assieme a virtualmente il 100% della popolazione un’ingente quantità di tempo (indicativamente diecimila ore della vita di ciascun individuo) nel corso del quale potesse aspirare ad ottenere da questo 100% la massima attenzione su di sé e su ciò che dice. Dovrebbe essere chiaro a tutti che in una situazione del genere questa minima parte della popolazione potrebbe esercitare sull’intera società un’influenza ineguagliabile. Se utilizzata nel modo giusto, tale influenza potrebbe essere determinante nel rendere la società stessa più vitale, più coesa, più avveduta, più responsabile. Viceversa, se utilizzata nel modo peggiore potrebbe contribuire a renderla inetta, opportunista, arrogante, insensibile.

Ora si dà il caso che la situazione qui descritta non sia affatto ipotetica; al contrario questa “minima parte” della popolazione dotata del suddetto privilegio esiste e si identifica con il corpo docente delle scuole primarie e secondarie.

Non mi interessa qui disquisire dei motivi storici, politici o sociali che hanno portato a ignorare o sottovalutare la rilevanza della classe docente, delle facoltà che le sono attribuite e della responsabilità che ne deriva. L’importante è che questa tendenza si inverta, a partire da una maggiore consapevolezza dei docenti stessi, ai quali non dovrebbe sfuggire che i ragazzi che frequentano le loro lezioni tra venti o trent’anni incroceranno sulla loro strada tutti i problemi che gli adulti di oggi non hanno voluto o saputo risolvere, più una serie di problemi nuovi che in questo momento probabilmente non possiamo neanche immaginare, e non ci sarà nessuno più saggio e competente di loro in grado di affiancarli e indicare possibili soluzioni. A questi docenti suggerisco, la prossima volta che entreranno in aula, di osservare con attenzione i propri studenti e porsi una domanda. La domanda che ho in mente non è semplicemente: “Ce la faranno ad affrontare i problemi che incontreranno nel corso della loro vita?”, ma più precisamente: “Che cosa sto facendo io per metterli nella condizione di individuare, comprendere e affrontare al meglio i problemi che incontreranno nel corso della loro vita?”.

Ogni docente presumibilmente ha una propria serie di motivazioni, di obiettivi e di priorità. Senza la pretesa di essere esaustivo, potrei ad esempio proporre:

  1. portare a casa lo stipendio
  2. evitare l’esaurimento e il burnout
  3. compiacere il digerente scolastico e il suo staff onde ottenerne vantaggi personali
  4. porre le basi di un’esistenza dignitosa per l’umanità di domani

Questi obiettivi non sono necessariamente tutti in conflitto tra di loro, ma indubbiamente in alcuni casi rischiano di esserlo.

Prendiamo ad esempio il punto 2. L’obiettivo può essere perseguito, in molti casi efficacemente, riducendo o evitando completamente qualunque situazione di tensione o di conflitto con studenti, famiglie e apparato dirigente. A tale scopo la soluzione più comune e apprezzata è assegnare sistematicamente agli studenti voti più alti del dovuto, in modo che nessuno degli attori coinvolti abbia a lamentarsi dello scarso rendimento scolastico. Naturalmente questa scelta ha conseguenze devastanti in ordine all’obiettivo 4: gli studenti, preso atto della scarsa rilevanza dell’impegno personale ai fini del successo scolastico, saranno incentivati ad applicarsi sempre meno, generando un circolo vizioso in cui i docenti si vedranno costretti ad essere sempre più generosi nelle valutazioni; una volta usciti dalla scuola con in mano un titolo ormai del tutto svalutato, questi ex-non-studenti si renderanno conto troppo tardi che non sempre nel “mondo reale” le cose funzionano come nella scuola, ne trarranno frustrazione a livello personale mentre a livello sociale alimenteranno il secondo dei due scenari prospettati all’inizio del discorso.

Se poi il nostro docente fosse incline anche a seguire la strada indicata dal punto 3, trasmetterebbe indirettamente ai suoi studenti anche una propensione al servilismo e all’opportunismo, che non sono certamente qualità utili ad una società che aspira ad essere libera ed egualitaria.

Naturalmente per evitare tutto questo è indispensabile che il docente accetti di affrontare almeno in parte il rischio derivante dai suddetti conflitti, e si sforzi di valutare in modo onesto il profitto dei suoi studenti evitando il più possibile di commettere il falso in atto pubblico di un voto immeritato in pagella.





Questo è ciò che può e dovrebbe fare, nel suo piccolo, ciascun singolo docente. Volendo pensare in grande, immaginando di avere una bacchetta magica che permetta di modellare l’ordinamento scolastico a nostro piacimento, il problema dell’esaurimento, del burnout e dei conflitti potrebbe essere affrontato rimediando radicalmente ad una stortura quasi onnipresente nella maggior parte delle scuole del mondo: l’idea che la stessa persona debba essere incaricata sia di istruire gli studenti, sia di valutarli. Questo stato di cose sembrerà del tutto ovvio e assolutamente innocuo a molti, ma potrebbe essere paragonato alla situazione in cui chi ha progettato un ponte sia anche incaricato di collaudarlo, o a quella in cui al responsabile della sicurezza di un qualunque apparato venga anche affidato il compito di ridurre drasticamente le spese ad esso connesse. Il problema che si pone in tutti questi casi è serio e ben noto: si chiama conflitto di interessi.

Ma torniamo alla scuola. Etimologicamente parlando il docente docet, mentre il discente discit: uno insegna e l’altro impara. Nella pratica comune, invece, il docente spende la maggior parte del suo tempo nella valutazione (preparazione, somministrazione e correzione di verifiche scritte, interrogazioni orali, oltre che in una miriade di insulsi adempimenti burocratici) e il discente spende la maggior parte del suo tempo nel tirare a campare. Nessuno dei due quindi dedica le proprie energie migliori a quello che è il suo compito principale.

Ora soffermiamoci un attimo su due delle tante tipologie possibili di docente. La prima è quella di una persona dotata di un’ampia cultura generale che nutre un interesse specifico per una o più branche del sapere relativamente alle quali è in grado di trasmettere passione ed entusiasmo. La seconda è quella di una persona altamente specializzata in un particolare comparto del sapere, a cui dedica quasi interamente la propria vita con studi e ricerche originali, che vive in un mondo un po’ a sé stante e parla un linguaggio che solo gli addetti agli stessi lavori comprendono appieno.

Non credo che ci sia bisogno di spiegare perché la prima tipologia è di gran lunga la più adatta per gli scopi di cui stiamo parlando: insegnare nelle scuole. Ciò resta vero anche nel caso che le sue conoscenze specifiche nella materia che insegna fossero significativamente inferiori a quelle del rappresentante della seconda tipologia. Quest’ultima potrebbe essere indicata eventualmente a ricoprire il ruolo di docente universitario, ma soprattutto potrebbe tornarci utile se chiamata periodicamente a far visita alle scuole con lo scopo di valutare con il dovuto rigore gli studenti (possibilmente non con test a crocette, visto che i problemi del mondo reale non hanno lo spazio dove mettere la crocetta, ed è di gran lunga preferibile sviluppare una soluzione personale, anche se non del tutto corretta, piuttosto che indicare come corretta la soluzione fornita da qualcun altro).

Naturalmente anche al docente della prima tipologia si potrebbe chiedere, in aggiunta all’insegnamento, di occuparsi di valutazione, ed è infatti ciò che normalmente accade. Ma a quale prezzo? Anche ammesso — e non necessariamente concesso — che un insegnante del genere possa trasmettere a qualcuno dei suoi studenti una parte della propria passione, nel momento in cui dovesse annunciare loro: “Ora studiate che poi vi interrogo”, facilmente questa passione si volatilizzerebbe. L’insegnante stesso potrebbe essere frustrato nel dover imporre ai suoi studenti qualcosa la cui importanza fondamentale gli appare auto-evidente e che dal suo punto di vista merita di essere apprezzato semplicemente per quello che è, senza bisogno di alcuna forzatura. Al contrario, separando nettamente insegnamento e valutazione, al rapporto di diffidenza e ostilità tipicamente instaurato tra studenti e professori si sostituirebbe un rapporto di complicità e di comunione di obiettivi, e sarebbero gli studenti stessi (per lo meno quelli che hanno a cuore il proprio avanzamento scolastico), in vista della prova di valutazione effettuata da personale esterno, a sollecitare il docente a prepararli al meglio.





Alla nostra bacchetta magica non possiamo chiedere troppo, e quindi dobbiamo rinunciare all’idea che la scuola riesca a reclutare un numero sufficiente di docenti della prima tipologia. Ne restano tante altre, e una delle più comuni probabilmente è quella i cui interessi si limitano ai punti 1 e 2 (stipendio senza troppe rotture di scatole). Sarebbe comunque meglio una scuola strutturata bene, anche se non tutti i docenti sono adeguatamente motivati, piuttosto che una scuola strutturata in modo tale da annullare la motivazione di quei pochi docenti che potrebbero metterla a frutto.

Dopo aver affrontato sommariamente la questione dal punto di vista del docente, sarebbe limitativo non dedicare un po’ di attenzione anche a quello dello studente.

Uno dei motivi per cui la scuola oggi in Italia è quello che è va ricercato nell’idea che essa debba essere non in prima istanza un luogo dove si studia e si impara, ma un centro di aggregazione e di sviluppo della socialità, dove il primo obiettivo è il benessere dello studente. Quando si parla di valutazione del profitto scolastico, come abbiamo visto, non c’è margine di dubbio: assegnare ad uno studente un voto più alto di quello che merita e conferirgli un titolo di studio per il quale non ha i requisiti è sempre e comunque un errore dalle conseguenze disastrose sia sul piano individuale sia sul piano sociale. Trattando però il tema generale dell’ambiente scolastico ora introdotto ci si rende facilmente conto, considerando quali possono essere le conseguenze estreme sia dell’approccio appena descritto sia del suo opposto (una scuola opprimente e fortemente competitiva dove l’unica cosa che conta sono i voti conseguiti a fine anno) che questo è uno dei tanti casi dove il giusto sta nel mezzo, e che è fondamentale trovare un equilibrio tra i due estremi. Fermo restando da un lato che lo scopo primario della scuola è formare il senso critico degli studenti di fronte a tutto ciò che pertiene alla cultura, alla scienza e alla tecnologia del mondo in cui vivono, è perfettamente legittima l’aspirazione a fare sì che questa formazione avvenga in un contesto il più possibile sereno e confortevole.

In astratto molti saranno d’accordo su questo punto, ma purtroppo tale aspirazione si può realizzare in diversi modi, e non tutti sono altrettanto accettabili. Poniamo il caso, invero piuttosto frequente, in cui nella stessa classe ci siano alcuni studenti particolarmente brillanti accanto a compagni che invece faticano a tenere il passo. Per evitare che questi ultimi possano risentire negativamente del confronto con i migliori, si potrebbe pensare di proporre alla classe programmi didattici più limitati e meno ambiziosi, in modo che la distanza tra i due estremi sia meno evidente. Quest’idea potrebbe essere supportata con la considerazione che gli studenti più bravi saranno comunque sempre in grado di cavarsela anche senza aver affrontato a scuola la parte di programma più avanzata. Naturalmente tutto ciò va rigettato senza alcuna esitazione, perché se può essere almeno in parte vero che, a livello personale, questi studenti più brillanti sapranno trovare da soli le risorse necessarie per soddisfare le proprie aspirazioni, passando a considerazioni di livello sociale in prospettiva futura si vede che è prima di tutto su di loro che bisogna contare per affrontare tutti i problemi prevedibili e non prevedibili che si presenteranno, e negare loro l’accesso all’arsenale completo degli strumenti culturali di cui dispone la scuola significa tarpare le loro possibilità di incidere positivamente su di essi.





Un’altra situazione comune è quella di studenti con attitudine più spiccata in alcuni campi e meno in altri; ad esempio c’è chi se la cava con l’orale mentre ha problemi nello scritto, o viceversa. La tendenza a chiudere un occhio sulle difficoltà e compiacersi nell’esaltazione dei successi è piuttosto naturale e comprensibile, sia da parte dello studente, sia del docente, sia della famiglia. Si tratta però di una soddisfazione parziale e in un certo senso illusoria. Il compito della scuola non può ridursi a questo, ma anzi consiste specificamente nel mettere in luce i punti deboli e intervenire per rafforzarli. La logica da applicare non è “vai bene negli orali quindi d’ora in poi solo orali”, ma piuttosto il contrario: “vai male negli scritti quindi d’ora in poi solo scritti”. Non certo con lo scopo di umiliare lo studente, ma di permettergli di sviluppare le capacità che gli mancano. Credo vi siano poche cose in grado di garantire soddisfazione personale e generare autostima come il potersi voltare indietro e dire: “In questa cosa ero una capra, ora è il mio punto di forza”.

Considerazioni simili si applicano alle situazioni dove in classe si trovano studenti con qualche forma di disabilità, come deficit sensoriali o dislessia, o comunque in qualche modo oggettivamente svantaggiati rispetto agli altri. Partendo dal presupposto che sia stata formulata correttamente una diagnosi e siano adottati tutti gli strumenti compensativi disponibili (ad esempio l’utilizzo degli opportuni accorgimenti tipografici nei testi), è ancora una volta profondamente sbagliato riservare un trattamento di favore a tali studenti, facilitando le prove e assegnando voti non rispondenti al reale profitto o comunque applicando criteri diversi rispetto ai compagni. Il risultato di un simile comportamento non può che essere da un lato l’assopimento intellettivo dello studente, dall’altro un sentimento negativo da parte dei compagni e potenzialmente la proliferazione di false certificazioni di disabilità mirate semplicemente a spianare la carriera scolastica a studenti svogliati. Al contrario tale studente è quello che più di tutti ha bisogno di essere stimolato a profondere il massimo impegno possibile per sormontare i propri limiti, per cui va certamente seguito e incoraggiato, ma non aiutato più degli altri, anzi semmai di meno. Questo con lo scopo finale di trasformare uno studente dis-abile in uno diversamente abile, dove questa locuzione non deve essere intesa come un generico eufemismo, ma nel senso più specifico di abile tanto quanto gli altri, ma in virtù di una diversa miscela di abilità. E nei casi migliori un simile studente, da potenziale zavorra, potrebbe addirittura con i suoi successi diventare un elemento trainante dell’intera classe: “Se ci riesce lei/lui, perché non dovrei riuscirci anch’io?

Avendo accennato, a proposito degli studenti, alla possibilità di sormontare limiti che possono sembrare invalicabili, per concludere torniamo ancora brevemente alla docenza, ai suoi limiti e a come superarli, parlando di educazione civica. Come molti sanno, una recente riforma l’ha introdotta come materia a sé stante, il cui insegnamento, incentrato sulle tematiche del diritto e dell’ambiente, è però distribuito trasversalmente sui docenti di ciascuna classe. Non tutti i diretti interessati hanno apprezzato questo cambiamento: c’è chi ritiene che comporti una svalutazione di un argomento importante, che viene costretto a vivere parassitando le ore di altre materie e ad essere svolto da docenti non specificamente preparati; c’è chi lamenta l’impegno aggiuntivo senza alcun riconoscimento economico, trovandosi in più a comprimere il consueto programma della propria materia in un numero ridotto di ore.





Non entro nel merito di queste considerazioni, ma ricordando che ogni volta che sia possibile è necessario sforzarsi di trasformare le avversità e gli ostacoli in nuove opportunità, mi verrebbe la curiosità di esplorare i risultati a cui si giungerebbe spingendo il principio che sta alla base di questa riforma alle sue estreme conseguenze. Che, cioè, l’educazione civica venga considerata non una seccatura da cui liberarsi col minor sforzo possibile, ma la materia in assoluto più importante e che ogni docente di ogni scuola fosse investito come compito primario della responsabilità di insegnarla, e solo secondariamente si dovesse occupare della sua materia ordinaria.

In un’ottica del genere, immagino che un docente presentandosi ad un una nuova classe il primo giorno di scuola potrebbe esordire in questo modo:

Buongiorno, io sono il vostro insegnante di educazione civica. Ad essere sincero, non ho ricevuto una formazione specifica in questo campo; quello che posso dirvi è che noi tutti qui dentro respiriamo la stessa aria e siamo soggetti alle stesse leggi, e che la qualità di questa aria e l’orientamento di queste leggi non sono stabiliti una volta per tutte, ma ciascuno di noi, in un modo che comprenderete se vi applicherete nello studio delle diverse materie, può dare un contributo nel determinarli. Se poi sapete assumervi la responsabilità delle vostre azioni, se avete imparato a non approfittare delle difficoltà e delle debolezze degli altri e provate indignazione quando vedete qualcuno che lo fa, se prima di agire vi interrogate su quali potranno essere le conseguenze della vostra azione non tra dieci o venti minuti, ma tra dieci o vent’anni, allora non avrò più molto altro da insegnarvi, ma per quello che vale vi accorderò incondizionatamente la mia stima. E questa stima non sarà intaccata se, dopo che vi avrò istruiti sulla materia in cui sono più competente, dovendo per il mio ruolo anche valutare il vostro profitto, vi trovassi non del tutto preparati. Se vi capiterà — e potrebbe capitare — di ricevere da me dei brutti voti, questo non dovrete intenderlo come un mio giudizio personale su di voi: può darsi che per un giorno abbiate avuto di meglio da fare, o che io non sia stato capace di suscitare il vostro interesse, o forse che siate proprio negati per la mia materia; nella maggior parte dei casi sono convinto che si potrà rimediare, soprattutto se saremo capaci, ciascuno di noi, di imparare dai nostri errori.  E se anche dovesse capitarvi di ripetere un anno o di decidere di cambiare istituto per frequentare una scuola più consona alle vostre attitudini, so che il vostro tesoro più prezioso lo porterete con voi e ho fiducia che saprete rappresentare per tutti coloro che incontrerete un esempio da imitare.

Così, tanto per vedere l’effetto che fa.






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