Post traumatico

Ai lettori che fossero rimasti traumatizzati dagli ultimi articoli pubblicati posso subito offrire una rassicurazione: questa volta si parla di cose gravi ma non serie. Essendo che tutto è connesso a tutto, comunque, troverete alla fine un legame con quanto precede.

Ho i miei buoni motivi per affrontare oggi una questione linguistica discutendo un paio di casi di degenerazione della lingua italiana che stanno progressivamente infestando i giornali e rischiano quindi di venire poi accolti a pieno titolo nei vocabolari.

Iniziamo dal verbo “postare”, che risulta attestato fin dal ‘500, utilizzato quasi esclusivamente in ambito militare e la cui origine e il cui significato sono analoghi al più comune “appostare”. Brutto finché volete, ma in questi secoli non ha arrecato grossi danni alla lingua italiana. Ora però la vera minaccia viene dal suo omofono beceramente derivato dall’inglese “to post”, verbo che al suo antico significato di “affiggere” aggiunge quello più moderno di “condividere su Internet”.

Ogni volta che qualcuno arbitrariamente applica il suffisso “-are” ad una qualunque parola inglese e inizia a coniugare il risultato come se fosse un verbo italiano si compie un piccolo scempio, ma l’uso del verbo “postare” nella nuova accezione (insieme ovviamente allo strettamente correlato sostantivo “post”) sta diventando così virulento che non si può più stare zitti a guardare senza fare niente.

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L’odissea della giustizia ad orologeria

Ci risiamo: si avvicinano le elezioni e alcuni politici o alcuni partiti, più o meno sempre i soliti, finiscono nel mirino della magistratura. In un paese democratico questo è inaccettabile, perché rischia di falsare i risultati delle elezioni, incentivare la tendenza all’astensionismo e alimentare il vento dell’antipolitica. Per uscire da questa impasse c’è un solo mezzo: la magistratura è soggetta soltanto alla legge, e quindi la politica deve trovare urgentemente una soluzione condivisa per legiferare su questo tema.

Ispirato dal detto popolare “a mali estremi, estremi rimedi”, per tutelare i politici da questa ignobile gogna Bue punto zero propone una soluzione drastica, per quanto non certo completa né definitiva. E neppure originale, poiché ha degli importanti precursori: sappiamo che Ulisse, il nobile eroe omerico, per non farsi irretire dalle sirene si fece legare dai suoi compagni all’albero maestro; oggi in Italia esiste il D.A.Spo., un provvedimento mirato a ridurre la violenza negli stadi che vieta ai soggetti ritenuti pericolosi di accedere agli impianti dove si svolgono determinate manifestazioni sportive. Bene, applichiamo qualcosa del genere anche a tutti i politici a rischio, ovvero a quelli già soggetti in passato a indagini o provvedimenti da parte della magistratura: tre o quattro anni prima delle elezioni li mettiamo agli arresti domiciliari senza telefono, senza accesso a Internet e senza alcuna possibilità di contatto con il mondo esterno. In questo modo sarà molto più facile per essi resistere alla tentazione di delinquere, e arriveranno quindi alla campagna elettorale freschi, puliti e immacolati come fiorellini di campo.

Si tratta di una limitazione personale di non poco conto, ne siamo consapevoli. Ma, cari politici, certo sapete che il bene della democrazia viene prima di tutto il resto: le generazioni future vi ringrazieranno per il vostro sacrificio.

L’XYZ della democrazia

La legge esiste per tutelare i più deboli. Ove questa venisse a mancare, non si applicherebbe altro che la semplice e atavica legge del più forte. In un Paese democratico, in teoria, il potere lo detiene il popolo, e la legge tutela le minoranze (in assenza di questa tutela, infatti, non si parla di democrazia, ma di dittatura della maggioranza). Capita tuttavia che il voto popolare consegni il potere ad un’oligarchia avida e corrotta, la quale lo esercita contro gli interessi del popolo stesso. In questo caso è il popolo ad occupare la posizione più debole, e la legge, fintanto che è applicata, rimane la sua unica tutela. Nel momento in cui, in un regime democratico già gravemente compromesso, si indebolisse o venisse del tutto a mancare un’istituzione dotata dell’autorità di far rispettare la legge, si assisterebbe inevitabilmente alla fine della democrazia.

È quindi del tutto naturale e forse inevitabile che in questa situazione i magistrati che si sforzano di applicare in modo rigoroso la legge, sottoponendo ad indagini e processi, ove ne ricorrano i presupposti, anche i membri della suddetta oligarchia, raccolgano un buon grado di consenso popolare, mentre in un contesto di reale democrazia ciò che alcuni oggi considerano deprecabile (e cioè il fatto che i magistrati possano cercare e ottenere il consenso delle masse) sarebbe semplicemente privo di senso, perché la magistratura lavorerebbe per lo più per tutelare le minoranze, eventualmente anche contro gli interessi della maggioranza.

In ogni caso, se il consenso popolare ha potuto a suo tempo legittimare quell’oligarchia avida e corrotta che ora, per non essere spodestata, cerca a sua volta di delegittimare con ogni mezzo tutte le voci e tutte le forze che le si oppongono, è non solo tollerabile, ma anche auspicabile che esso si indirizzi ora verso alcuni magistrati; in particolar modo verso quelli onesti e integerrimi, i quali sono facilmente riconoscibili appunto per il fatto di subire quotidianamente attacchi da quelle cariche istituzionali e politiche che annoverano al loro interno schiere di corrotti, corruttori, concussori, mafiosi e via dicendo, nonché dai giornali ad essi asserviti, e persino da quella parte di magistratura  che non vuole inimicarseli. Se ancora rimanesse qualche dubbio sull’opportunità di questo consenso, esso verrà dissipato nel momento in cui qualcuno di questi magistrati dovesse essere perseguito per aver pubblicamente dichiarato nientemeno che la sua fedeltà alla Costituzione.


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Un panorama inquietante (prima parte)

Panorama: Il mondo alla rovescia

Dopo aver parlato per linee generali di marionette e di prostituzione intellettuale, è il momento di entrare nei dettagli. C’è una cosa che –i lettori più attenti lo avranno notato– ho omesso di spiegare: come si riconoscono? Lo illustrerò con degli esempi. Ma devo avvisare che, essendo i prostituti qui rappresentati nell’atto di prostituirsi, la lettura è sconsigliata ai minori e alle persone particolarmente sensibili.

Lo spunto per questo articolo nasce dal ritrovamento casuale sul sedile di un mezzo pubblico di una copia del settimanale Panorama, per la precisione l’edizione del 19 ottobre 2011. L’istinto iniziale di gettare lo spregevole fascicolo nella raccolta della carta straccia è stato superato dal balenare improvviso di un’idea: conservarlo per l’edificazione delle generazione future, che quasi certamente stenteranno a credere che tutto ciò che i bisnonni racconteranno sia accaduto davvero.

Approcciare un simile reperto senza pregiudizi è indubbiamente difficile. Basta sfogliare le prime pagine per trovare, in rapidissima sequenza, i nomi (e in molti casi anche le sagome a colori) di Giorgio Mulè, Giuliano Ferrara, Augusto Minzolini, Bruno Vespa. Basterebbe già questo a indisporre anche il lettore più benevolo. Ma più avanti, aristocraticamente separato dalla marmaglia, fa la sua apparizione anche Vittorio Feltri, chiudendo indegnamente la raccapricciante cinquina e stroncando anche gli stomaci più forti.

Anche senza essere prevenuti, che un inganno si annidi tra le righe e che quindi la rivista non meriti di essere considerata attendibile lo si capisce da una semplice e superficiale constatazione: in copertina campeggia una ieratica raffigurazione di Steve Jobs, ma all’interno non si parla affatto di Steve Jobs. La copertina è solo uno specchio per allodole. Quali siano i veri contenuti lo scopriremo tra pochissimo.

Marionetta numero uno, il direttore che firma l’editoriale è forse fra tutti l’esempio più lampante di prostituzione intellettuale. Il padrone ordina di delegittimare la magistratura? Lui obbedisce, testa bassa, senza il minimo tentativo di mascherare le malevole intenzioni. La tecnica applicata dal direttore è ispirata al seguente sordido principio: quando vuoi far passare come normale o addirittura lodevole tutto ciò che è abnorme e intollerabile, specularmente devi sforzarti di far passare come abnorme e intollerabile ciò che è ordinario o meritorio.

Leggiamo quindi a pagina 21: “La giustizia italiana è ormai una «Corrida»”, “Magistratura, addio credibilità”, “dilettanti allo sbaraglio”. Come vengono argomentate queste affermazioni? Citando quattro “casi clamorosi” che dovrebbero addirittura, nelle intenzioni dello scrivente, dimostrarle.

Il primo “caso” è l’assoluzione in appello per due imputati dell’omicidio Kercher. Mulè ipotizza addirittura che si possa lodare il coraggio della corte, quindi fin qui tutto bene. In effetti se la sentenza di appello fosse sempre uguale a quella di primo grado, non servirebbe neppure fare l’appello. Che cosa c’è che non va allora? Ecco che il sagace editorialista gioca la sua carta sottoponendo al lettore una domanda apparentemente insulsa (dimenticando tra l’altro di concluderla con il punto interrogativo): “Come la mettiamo se il giorno successivo il presidente della corte afferma: «Questa è la verità processuale, non quella reale. Che può essere diversa. Certamente Rudy sa quello che è accaduto e non l’ha detto. Forse lo sanno anche i due imputati, ma a noi non risulta»”. Fine del primo caso: Mulè non risponde e non spiega il senso della domanda. Questa sarebbe forse, secondo la marionetta, una dimostrazione lampante del fatto che i dilettanti allo sbaraglio della corrida della giustizia italiana hanno perso ogni credibilità. In realtà è difficile immaginare una dichiarazione più onesta di quella citata: la verità giuridica del processo è che non ci sono elementi per condannare gli imputati; che cosa sia successo davvero, se chi sa non parla, non lo potremo mai sapere. Ma i disonesti non sopportano l’onestà, e come Adim Er trasformano in sterco tutto l’oro che toccano.

Seguono cenni sui casi Scazzi, Tarantini, via D’Amelio, tutti accomunati dal fatto che diversi organi con diverse competenze (tribunali, procure, cassazione) esprimono pareri difformi tra loro. Lungi dall’essere un sintomo di degenerazione, questa constatazione rappresenta invece una conferma dell’indipendenza e dell’autonomia di quei magistrati che svolgono il loro mandato interpretando e applicando leggi e procedure alla luce della loro coscienza personale senza farsi influenzare dai giudizi altrui. Ma i servi, abituati a pensare all’unisono i pensieri di un’unica persona, evidentemente non possono comprendere che questa libertà sia un valore, e la denigrano.

Niente di meglio dunque per delegittimare la magistratura? Possibile che sia tutto qui, che non si trovi qualche caso più gustoso per soddisfare le brame del padrone? Non proprio: al direttore sarebbe bastato sfogliare le bozze del suo stesso giornale per trovare un esempio adattissimo allo scopo. A pag. 100 infatti si parla di un giudice corrotto. Che cosa può umiliare la certezza del diritto, pilastro del nostro vivere civile (sono parole di Mulè) più di un giudice corrotto? Più di una deviazione dolosa della regolare attività forense? Peccato che in quell’articolo l’attenzione sia posta su un altro aspetto, molto più tecnico: se cioè la sentenza viziata da corruzione sia da considerarsi in ogni caso nulla, come se non fosse mai esistita, o se sia necessario alla parte lesa, per ottenere una rettifica, presentare formale domanda di revoca. Ecco il cerchio che si chiude: mentre i magistrati che fanno il loro lavoro con onestà (talvolta anche commettendo errori, ovviamente, come tutti i mortali) sono additati come dilettanti incapaci, ciò che dovrebbe essere una deprecabile eccezione (la corruzione di un magistrato) passa in secondo piano, non suscita alcuna rimostranza, è considerata una cosa normale che può accadere a chiunque. Ecco servito il mondo alla rovescia.

Può non essere inutile aggiungere che il giudice di cui si parla è stato corrotto da un amico di Silvio Berlusconi con piena consapevolezza del mercimonio da parte del Cavaliere, e che questi si è salvato solo grazie ad una generosa concessione di attenuanti generiche che lo hanno accompagnato verso la prescrizione del reato. Ecco perché questo non è stato proposto come “caso clamoroso” nell’editoriale. Se qualche lettore benevolo ed ingenuo aveva ancora dubbi sulla cattiva fede del servo Mulè, ora sono dissolti. La qualifica di prostituto intellettuale è certificata.

SECONDA PARTE