Quasi una tautologia

Se mi chiedessero qual è la mia parabola evangelica preferita, sarei sulle prime tentato di sceglierne una tra quelle più apertamente paradossali: quelle che, all’interno di una situazione tratta dalla vita quotidiana, propongono uno sviluppo del tutto controintuitivo e inatteso, incompatibile con ogni comune logica umana. Alla fine probabilmente però ne indicherei una che si trova esattamente agli antipodi, e per la precisione questa:

Un uomo aveva due figli; si rivolse al primo e disse: “Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna”. Rispose: “Non voglio”; dopo però, pentitosi, andò. Il padre si rivolse al secondo e disse allo stesso modo. Ed egli rispose: “Vado”; ma non andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?

Qui non si trova proprio nulla di paradossale; al contrario la risposta alla domanda è del tutto ovvia e scontata. Per chi non conoscesse il significato del termine “tautologia”, ne è un esempio lampante proprio questa frase: Il figlio che ha compiuto la volontà del padre è quello che ha fatto ciò che il padre gli ha ordinato.

Che senso ha quindi proporre una parabola tautologica, la risposta alla cui domanda conclusiva è elementare e non dice nulla in più del suo presupposto?

La soluzione del dilemma è semplice: la parabola fa ricorso a poche semplici parole per sbattere brutalmente in faccia agli ipocriti — in primo luogo a quelli che detengono posizioni di potere — la loro ipocrisia nella sua forma più nuda e spudorata; è evidente che l’efficacia del risultato è tanto maggiore quanto più la forma della parabola che lo persegue è elementare e disarmante.

Se ai tempi di Gesù l’ipocrisia era così diffusa e radicata da meritare il primo posto nella lista dei nemici del Regno di Dio, va detto che oggi non siamo messi meglio. Basta prendere in considerazione la classe politica, che è, almeno in uno stato democratico, espressione altamente rappresentativa della popolazione che vota per essa.

Se vi capita di ascoltare il discorso di un personaggio politico e sentirgli dire cose che vi suonano un po’ strane, vi propongo un esperimento: provate a sostituire alcune parti del discorso con il loro opposto. Supponiamo che il politico in questione ad un certo punto dica: “è in cima alle nostre priorità”; provate a sostituire queste parole con: “non ce ne frega assolutamente nulla”. Può darsi che il risultato appaia molto più convincente. Come il secondo dei due figli nella parabola, costui sta dicendo una cosa, mentre il suo pensiero e le sue azioni concrete si trovano all’esatto opposto.

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Il gatto di Shelomoh

Saggezza antica per problemi attuali. Shelomoh, figlio di Dawid, figlio di Yishay, conosciuto in occidente per lo più con nomi derivati dalla forma latina Salomon, è un re d’Israele ricordato soprattutto per aver in pochi anni edificato un grande tempio a Gerusalemme. In secondo luogo è noto per la sua sapienza e la sua saggezza, esemplificata da un celebre episodio biblico di cui riporto una variante adattata alla sensibilità moderna (se volete, ne trovate la versione canonica nel primo libro dei Re).

Un giorno due sudditi si presentarono al cospetto del re con un gatto, di cui ciascuno rivendicava la proprietà, chiedendogli di dirimere la questione. Il sovrano si astenne dall’interrogare a fondo i due contendenti, non passò al setaccio le loro parole per individuare eventuali omissioni o contraddizioni, né mandò a cercare dei testimoni che potessero confermare o smentire quanto essi affermavano. Dopo aver ascoltato attentamente le loro deposizioni, con misurata lentezza sfoderò la spada, la sollevò scintillante alla luce del caldo giorno e, davanti a tutto il popolo, solennemente dichiarò: “Non c’è problema, voi tenete fermo il gatto, che io lo taglio in due. Mezzo gatto ciascuno non fa torto a nessuno.”

Fermiamoci qui, e riflettiamo innanzitutto sul fatto che l’episodio che dovrebbe dimostrare la straordinaria saggezza del re di primo acchito al comune buon senso appare piuttosto come un esempio di irrefrenabile follia. Chiediamoci poi quali reazioni potevano ragionevolmente scaturire da un simile proponimento. Una possibilità è che almeno uno dei due contendenti inorridito rinunciasse alla pretesa (ed è in effetti più o meno quello che è accaduto nella storia originale, ma se non conoscete il finale non vi rovino il colpo di scena conclusivo e vi lascio il tempo di andare a documentarvi). Un’altra è che al contrario cominciassero subito a litigare su chi dei due avrebbe poi portato a casa la parte più grossa. Un’altra ancora è che i due cercassero in extremis di trovare un accordo: tenere il gatto a giorni alterni, o tirare a sorte, o lasciare che fosse il gatto a scegliere, o qualcos’altro del genere.





Un aspetto di questa vicenda che i commentatori, da secoli avvezzi a soffermarsi sull’esaltazione della saggezza del re, tendono generalmente a sottovalutare è quanto essa debba andare di pari passo con una grande arditezza. Se escludiamo che abbia agito impulsivamente, dobbiamo concludere che egli ha tenuto bene in conto anche la possibilità di trovarsi a dover fendere il colpo e dimidiare il povero felino. Pensate che figura avrebbe fatto davanti a tutto il popolo il grande e potente re Shelomoh se, a fronte dell’inflessibile ostinazione dei due sudditi, si fosse ridotto a dover ammettere: —Ma no, mica lo taglio davvero, ovvio che scherzavo!—. Un conto è proporre un esperimento mentale in cui il gatto, magari a seguito del possibile decadimento spontaneo di una sostanza radioattiva, è sottoposto al concreto rischio di tirare le cuoia; un conto è trovarti lì con la spada in mano e il gatto steso sull’altare che cerca disperatamente di divincolarsi dalla presa, mentre centinaia di occhi sono puntati su di te in attesa che tu mantenga la tua regale parola.

Ora lasciamo il sovrano in questa situazione imbarazzante e portiamo avanti le lancette dell’orologio di tremila anni: in un balzo arriviamo proprio ai giorni nostri. Il tempio a Gerusalemme non c’è più, ma in compenso c’è un problema molto simile a quello che abbiamo appena lasciato in sospeso. Questa volta al posto del gatto c’è un territorio, e al posto dei due sudditi ci sono due popoli che annoverano diversi milioni di persone ciascuno. Il fatto che il conflitto tra i due popoli duri ormai da più di un secolo e abbia mietuto da allora molte decine di migliaia di vittime lascia intuire che il problema non ammetta alcuna soluzione semplice, e purtroppo il re saggio, nel nostro repentino viaggio nel tempo, lo abbiamo lasciato là dov’era con la spada sguainata e una gatta da pelare. Tuttavia ci è lecito chiederci quale soluzione ci avrebbe suggerito se avessimo potuto condurlo qui con noi. Diciamo che anche questo è una sorta di esperimento mentale.

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Nakba — Catastrofe

Ghayz è un nome insolito per una bambina. Suo padre si chiama Shady ed è nato il 19 maggio 2004 a Rafah, vicino al confine con l’Egitto. Fin da quando era in fasce i suoi gli parlavano dell’operazione “Arcobaleno”, dei missili sparati dagli elicotteri sul corteo di manifestanti e di come, il giorno stesso della sua nascita, l’intero quartiere dove abitavano sia stato raso al suolo dalle ruspe.

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Questione di intelligenza

Qualche anno fa, in un articolo che trattava — tra le altre cose — del realizzarsi delle profezie contenute nella letteratura fantascientifica, avevo fatto riferimento ad un breve racconto di Isaac Asimov. Anche in questa sede potrei citare altri racconti dello stesso autore (ad esempio questo) allo scopo di introdurre il tema che allora era stato toccato un po’ di sfuggita, ma che oggi affronterò in maniera più approfondita, visto che recentemente ha iniziato a mettere in fibrillazione le autorità di molti Paesi: l’intelligenza artificiale.

Uno dei motivi dichiarati per cui queste autorità si interessano all’argomento è preservare la garanzia di alcuni diritti civili che potrebbero essere messi a rischio da un uso scorretto di tali tecnologie. Un motivo meno esplicito ma probabilmente più grave è il timore che una loro diffusione incontrollata possa portare molti cittadini ad affidarsi interamente ad esse e a dismettere definitivamente l’ormai pleonastico fardello della propria scatola cranica. Questo mostra che in realtà non si è ancora arrivati al nocciolo del problema, poiché la vera questione su cui si concentra oggi l’attenzione, più che l’intelligenza artificiale, è ancora una volta la stupidità umana.

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Patrioti russi

Verso la metà del tredicesimo secolo i territori nordoccidentali della Russia erano minacciati dall’espansione teutonica. Il principe Aleksandr raccolse un esercito di cavalieri e di contadini e respinse l’invasore in un’epica battaglia sul lago ghiacciato di Peipus.

Nel 1938 Ėjzenštejn, uno dei più influenti registi cinematografici della storia, girò un film che narra le gesta del principe; Sergej Prokof’ev fu incaricato di comporre la colonna sonora, dalla quale poi trasse la cantata dal titolo “Aleksandr Nevskij”.

A coloro che in questi giorni discutono su come boicottare la cultura e la lingua russe, propongo invece di ascoltare quel brano della cantata che segue l’episodio della battaglia sui ghiacci: non conosco nulla che trasmetta in modo più vivido la desolazione lasciata dalla guerra.

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